Quarto Mandala, un nuovo colore

Sono arrivato al quarto mandala, questa volta finito in collaborazione con una mia amica durante le festività natalizie.

Ne condividerò altri due colorati sempre da lei.

Tutto ciò aggiunge un nuovo “colore” al mio libro di mandala: il colore della condivisione.


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Emozioni, queste sconosciute

Giorno imprecisato della scalata, la temperatura si sta abbassando… sento un leggero nodo alla gola… lo stomaco un po’ chiuso…
Proprio come temevo: il sentiero sta riprendendo a salire.
Prima reazione: non di nuovo, non di nuovo! Basta camminare, sono stanco; voglio tornare indietro dove stavo bene.
Seconda reazione: ciao prima reazione, perché non hai nessuna fiducia in me?
E il flusso continua, ma qualcosa sta cambiando.

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Bando alle ciance ora e veniamo all’articolo di oggi. L’ho chiamato “Emozioni, queste sconosciute” – ovviamente non a caso.
In passato ho parlato del libro di Goleman “Intelligenza emotiva”, del quale ho temporaneamente sospeso la lettura, ma conto di riprenderla in futuro.

Ora voglio parlarvi di un video che ho trovato su YouTube, che sostengo e condivido.
Nonostante il nome del canale “The School of Life” mi stia un po’ antipatico – le parole “scuola” e “vita” insieme stonano nella mia testa – ne ho apprezzato molto i contenuti.
Qui di seguito propongo il link e una traduzione (riarrangiata):

Traduzione (ho messo i commenti personali in corsivo per disambiguare)

“Come elaborare le emozioni” – “How to process emotions”

“È davvero strano che alcune delle emozioni che proviamo non vengano riconosciute, comprese o sentite appieno dalla nostra mente – da qui il titolo dell’articolo! 😉 
Alcuni sentimenti esistono dentro di noi in una sorta di stato grezzo. Una grande quantità di preoccupazioni può, ad esempio, essere repressa o non interpretata correttamente, manifestandosi in seguito sotto forma di un oceano d’ansia.
Sull’onda di quest’ansia, potremmo sentire un bisogno compulsivo di tenerci occupati; potremmo avere paura di rimanere da soli e perciò avvinghiarci ad attività che ci assicurino di non incontrare quello che ci fa paura faccia a faccia.
Un simile evitamento lo si attua anche di fronte al dolore. Quando ci sentiamo sfruttati, sottostimati o derisi dagli altri fuggiamo da un sincero confronto con queste emozioni, poiché temiamo di sentirci vulnerabili.
Il dolore è nascosto da qualche parte al nostro interno, ma in superficie mostriamo un fragile sorriso (l’illusione della tristezza che non si conosce – beata ignoranza!), ci intorpidiamo con alcool o altre sostanze, oppure adottiamo un tono cinico costruito con attenzione, che maschera la ferita interna.
Senza nemmeno accorgercene, paghiamo quotidianamente un conto salato per aver fallito nell’elaborare i nostri sentimenti. La nostra mente cresce con un timore nei confronti di questi contenuti, nascosto dietro le quinte.
Diventiamo depressi perché non possiamo più permetterci di essere tristi per qualcosa – e questo è paradossale! Non dormiamo più: l’insonnia diventa la rivincita dei pensieri che non abbiamo elaborato – o peggio, soppresso! – durante il giorno.
Abbiamo bisogno di essere compassionevole con noi stessi (ciò non significa piangersi addosso, ma comprendere il proprio dolore e non ripudiarlo).
Come già detto, falliamo nell’elaborare queste emozioni perché ciò che proviamo è molto diverso dall’immagine che noi stessi ci siamo creati, oppure è contrario alle idee di normalità trasmesse dalla società attuale, o completamente in contrasto con chi vorremmo essere.
La situazione migliorerebbe se tutte queste difficoltà legate all’essere umano fossero apertamente riconosciute e accettate. Non falliamo di riconoscerle per pigrizia o perché ci trascuriamo, lo facciamo semplicemente perché fa male.
Elaborare queste emozioni richiede dei buoni amici, degli abili terapeuti e dei momenti meditativi/introspettivi in cui le nostre normali difese possono essere messe da parte e creare una zona “protetta”.
Il risultato dell’elaborazione delle emozioni è sempre un alleviamento del nostro umore generale, ma prima dobbiamo pagare questa autoconsapevolezza. Il conto è rappresentato da un periodo di ritiro, di lutto, durante il quale gradualmente riconosciamo che in alcuni momenti la vita è semplicemente molto più triste di come la vorremmo”
…e aggiungo: ma non per questo dobbiamo metterla in pausa e gettarci a capofitto nell’elaborazione di queste emozioni, sarebbe come tentare di controllarle, che non è diverso da sopprimerle. Quello che è possibile fare è “prenderle” per mano e portarle con noi lungo il cammino (nel mio caso, della Montagna).

Ne approfitto per augurare a tutti buone feste!

A presto! 🙂

La forza interna

Un articolo-sketch un po’ diverso dal solito.

Da un paio di mesi mi sono interessato al Tai Ji Quan (o Tai Chi Chuan) e ho cominciato a praticarlo con costanza settimanale.

Non sono un esperto al riguardo (sono agli inizi!) ma come in tutti gli altri articoli mi limito a descrivere alcune idee o modi che ho trovato per affrontare la scalata.

Il Tai Ji Quan è un’arte marziale interna della tradizione cinese.

Porta con sé aspetti del Qi Gong e del Nei Gong, e mira ad aiutare l’individuo a sviluppare la propria forza interna.

Voglio soffermarmi in particolare sulla parola Nei Gong, che è un ideogramma cinese composto da 2 pittogrammi:

内功

Il primo (Nei) 内 significa “interno“.

Il secondo (Gong) 功 significa “lavoro, abilità e forza“.

Nei Gong significa dunque “lavorare per costruire la forza interna” e indica un insieme di tecniche e metodi delle arti marziali cinesi che condizionano il corpo e la mente del praticante per prepararlo al combattimento (cit. Wiki).

Inutile dire che, nell’ottica della mia scalata, l’argomento mi interessi molto.

Per una mente come la mia che tende a essere molto dispersiva e passare da un pensiero all’altro con estrema velocità, lasciandomi a volte spiazzato, credo che il Tai Ji Quan possa fare bene… può essere un modo per “rallentarmi”.

Infatti, proprio come in questa arte marziale, solo il movimento lento consente di “sentire” dentro di noi quello che si sta facendo (processo di consapevolezza).

Rallentare i miei pensieri è un traguardo ancora molto difficile, se non impossibile. Ma rallentare il corpo e portare la mente a concentrarsi su movimenti lenti è a mio parere un bell’inizio. La consapevolezza fisica, in questo senso, potrà forse favorire anche la mia consapevolezza mentale… come al solito, si tratta di traguardi molto lontani.

Spero che l’argomento vi abbia interessato, seppure lo abbia solo accennato e non sia un grande esperto al riguardo!

A presto.

Come ho cominciato la scalata

Voglio cominciare il primo articolo con una delle mie metafore preferite, che è quella della montagna, da cui prende titolo il blog.

La montagna riflette il percorso di crescita personale che devo, o meglio, sento di dover intraprendere in questo periodo della mia vita. Un percorso di crescita interiore, psicologico, emotivo e spirituale.

Ma come ci si prepara a un cammino del genere?

 

Noi non siamo tutti uguali, quindi se andiamo in montagna ognuno di noi molto probabilmente porta con sé oggetti diversi (ad esempio chi soffre il freddo porta con sé un k-way). Non solo, ma anche la montagna da scalare varia da persona a persona (chi sa di dover affrontare un’arrampicata si doterà di imbrago, corda e moschettoni… ).

Alla luce di tutte queste analogie, mi appare chiaro che per intraprendere questo percorso è necessario:

– conoscere la montagna da scalare

– conoscere se stessi

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Purtroppo nella realtà la montagna da scalare è ignota, o se ne conosce solo una parte: l’approccio che uso di solito è vedere giorno dopo giorno quali sono le difficoltà che incontro, cercando dei lietmotiv – fili conduttori – che mi accompagnino.

Il secondo punto è enormemente difficile e l’argomento è troppo vasto per essere affrontato nel primo articolo.

Inoltre, la separazione dei due punti è molto semplicistica. Anziché essere slegati, questi due concetti sono in stretta relazione e si aiutano reciprocamente: una conoscenza della montagna aiuterà a conoscere se stessi (e viceversa).

Una buonissima idea è quella di affidarsi a una (o più) guide, che possono dare una mano durante la scalata. Si può trattare di familiari, amici, parenti, qualsiasi persona con la quale abbiamo instaurato dei legami. E, perché no, anche persone che ci sono sconosciute.

Visto che la montagna siamo noi, queste persone ci aiutano a scoprire qualcosa di nuovo su noi stessi.

La conoscenza di sé attraverso gli altri è una delle noti dolenti del percorso, ma può essere al tempo stesso una grande risorsa.

Quindi gambe in spalla (meta-metafora) e cominciamo…

Sì, ma concretamente di cosa parlerò qui?

Non ne ho ancora la minima idea. Questo è il mio spazio personale, probabilmente parlerò dei miei interessi, ma in modo diluito nel tempo.